lunedì 10 marzo 2008

Un tunnel rosa

Un tunnel rosa che collega via Duprè e via Da Castello. Sopra il traffico e il rumore senza soste del cavalcavia Monteceneri. Da quel tunnel ci passiamo tutti i giorni, quattro volte al giorno. Per andare alla scuola elementare pubblica più speciale della nostra città.
E’ il rosa più bello del mondo quello del nostro tunnel, il colore che piace tanto alle bambine e di cui vorrebbero sempre vestirsi. E’ strano pensare a se stessi e ai propri bimbi nell’atto di percorrere quel breve tunnel rosa, mentre sopra alle proprie teste scorre la città, quintali di cemento, asfalto e lamiere grigi. Quel piccolo corridoio è come un buongiorno, un benvenuto che la città rivolge ai tanti bambini che passano di lì. Poi entri. La puzza e le pozze di pipì ogni due passi. Le tag sono dappertutto. Si incrociano e si sovrappongono. “T.v.t.b.” ad ogni altezza; brutte parole vecchie insieme a parole nuove ancora più brutte, figlie del linguaggio da sms.
Vicino all’uscita di via Da Castello c’è un disegno. Il volto di un brutto ceffo cui qualcuno ha cerchiato gli occhi di verde acido. Lo chiamiamo il mostro da quando la mia piccola di un anno e mezzo, tutte le volte che ce lo ritrovavamo di fianco, cominciava a fare uno strano ringhio. E così ora c’è il rituale del mostro. Io le dico: “Attenta Isa che adesso arriva il mostro!” e lei comincia a fare, per l’appunto, uno strano bau-bau. E così si fa l’abitudine al brutto che è intorno a noi, anzi ci si ride sopra. E quasi senza accorgersene, giorno dopo giorno, ti dimentichi di ricordare ai bambini che quel passaggio non dovrebbe essere così. Appena fuori dal tunnel vediamo una ragazza che, bici in spalla, si appresta a salire le due rampe di scale che la separano dal cavalcavia. Anche questa è Milano. Tra il muro di cinta della scuola e le barriere antirumore che la separano dal cavalcavia c’è una striscia di prato chiusa da un cancello sempre aperto. Lì davanti può capitare di vedere pezzi o parti di motori di automobili, scheletri di scooter abbandonati e una volta anche uno strano macchinario smaltato di bianco. Forse una macchina impastatrice. E abbiamo riso pensando a cosa facesse in strada, dimenticata su un marciapiede di periferia, una macchina che fa il pane. Abbiamo riso, ma è stata l’ultima volta.